Propaganda di guerra, una storia centenaria
- 08 Mag 2018
Siete soddisfatti della celebrazione ufficiale del centenario della Prima Guerra Mondiale?
Vi è servito per capire le vere cause della guerra, così come i meccanismi della propaganda massiccia che hanno portato a questo macello? In questo ventunesimo secolo quando battono forte i tamburi di guerra, è giunto il tempo di far luce su tutti questi aspetti. Per capire la crudele realtà della guerra. Ma anche per sapere come è emersa, contro i venti e le maree, la speranza in un mondo migliore…Lo storico Julien Papp, autore dell’opera “Dall’Austria-Ungheria in guerra alla Repubblica dei Consigli (1914-1920)”, analizza nel dettaglio un capitolo di storia “largamente sconosciuto in Francia”.
Alex Anfruns: Nel suo libro, lei descrive i meccanismi della propaganda già all’opera agli albori del 14-18, sottolineando la strumentalizzazione del sentimento nazionalista ungherese. Quali sono gli attori che hanno partecipato a questa propaganda contro l’Intesa?
Julien Papp: Innanzitutto bisogna far notare che al livello del potere civile non esisteva in Ungheria un organismo centrale che avrebbe potuto organizzare e coordinare le attività di propaganda. Questa missione incombeva al “Dipartimento militare imperiale e reale della Stampa” che dipendeva direttamente dal capo di stato maggiore. Questo dipartimento è stato creato il giorno stesso della dichiarazione di guerra alla Serbia.
L’organismo ha subito varie riorganizzazioni sempre nel senso di un ampliamento delle sue competenze. Nel 1917 esso comprendeva dodici unità: comando, censura, affari interni ed esteri, propaganda, stampa, artisti, fotografi, cinema, sezione italiana, corrispondenti di guerra, apparato amministrativo. Il Reparto militare della Stampa controllava le informazioni pubblicate dai giornali, coordinava le diverse attività di propaganda ed organizzava la lotta contro la propaganda nemica.
E dalla sponda dei civili?
Nell’entroterra, per sostenere gli sforzi di guerra della società, sono state create due organizzazioni: il Comitato centrale di Soccorso di Budapest, ed il Comitato nazionale di Soccorso militare. Nei due casi, si trattava di una cooperazione esplicita tra lo Stato e gli intellettuali vicini al potere.
Alla fine, quando si dice che la macchina della propaganda di guerra non si basava su di una istituzione statale, ciò non deve nascondere o diminuire l’importanza degli organi politici vicini al potere, anche se non appariva sempre chiaramente se le iniziative fossero politiche o spontanee.
Comunque sia, lo scopo era di ottenere e di mantenere in modo durevole il consenso del popolo, una volta passata la «febbre d’agosto», cioè quella specie d’isterismo collettivo che era seguito alla dichiarazione di guerra
Al di fuori dei canali organizzati, la propaganda venuta «dal basso» in qualche modo, implicava numerosi attori: dei giornalisti innanzitutto, ma anche degli scienziati, artisti, scrittori, poeti, pittori…
Potremmo aggiungervi i servizi pubblici come la scuola e la Posta, o ancora gli artigiani che fabbricavano innumerevoli oggetti aventi un rapporto con la guerra. In poco tempo, cioè nel luglio/agosto 1914, sono nate più di una dozzina di opere teatrali “patriottiche”, qualcuna di queste strumentalizzava i ricordi folclorizzati della guerra d’indipendenza del 1848-1849.
Lei dice che il ruolo dei giornalisti è stato importante…
Si. La loro azione è stata la più massiccia, ma gli intellettuali in generale, nelle loro grande maggioranza, si sono lanciati volontariamente nella giustificazione della guerra e nella trasmissione della politica guerriera del governo. Come negli altri paesi in guerra, bisognava impedire qualunque critica e dibattito; credere ciecamente nella necessità dell’unità nazionale e nell’accettazione dei sacrifici.
Nei giovani artisti mobilizzati, l’attitudine è spesso marcata dal rifiuto: queste persone si mettono a glorificare l’azione ed a denigrare se non addirittura odiare il loro proprio intellettualismo anteriore, come constatato dalla storica ungherese Eszter Balàzas i cui recenti lavori sulla propaganda sono particolarmente suggestivi.
Questa autrice osserva d’altro canto che sono gli intellettuali “guerrieri” che hanno creato il mito dell’entusiasmo di massa e generale, per estrapolazione partendo dal clima che regnava nell’agosto 1914; lo scopo consisteva nel far credere che la guerra provenisse dalla volontà generale. Le recenti ricerche tendono a dimostrare che il bellicismo era appannaggio soprattutto delle classi medie, et che ci fossero notevoli differenze tra le città e le campagne ed anche tra le diverse categorie sociali.
Le donne anche, motivate dalla moda e dalla distinzione, si sono segnalate in proporzione notevole ed oltre le differenze di classe, per un rumoroso entusiasmo per i loro «eroi» mariti, figli o fratelli, come scriveva Andor Latzko, in una novella poi in un libro apparsi nel 1917 e 1918 a Zurigo.
Il libro dal titolo Hommes en guerre (Uomini in guerra) fu immediatamente proibito in Ungheria, in Germania ed in Austria, et poi in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti, dopo la traduzione dell’opera in francese ed in inglese.
Louis Kassak, artista e sindacalista militante ungherese antimilitarista che non ha cambiato bandiera, scriverà nel 1934 che «finora, la pretesa emancipazione delle donne non ha dato che delusioni ai suoi partigiani, sia che si tratti di uomini che di donne sensate”
Quali mezzi sono stati mobilizzati in questa campagna di propaganda in favore della guerra?
Anche qui c’è come una certa familiarità da un paese all’altro. In tutti gli Stati belligeranti, i giornali sono lo strumento principale della propaganda. In Ungheria, i grandi quotidiani nazionali (Gazzetta di Budapest, Il Giornale, Il Giornale Ungherese, Gazzetta di Pest) ed altri periodici (Giornale della sera, Ultime Notizie, Piccolo Giornale) avevano tirature comprese tra 160 e 180 mila copie. Nel 1872, si contavano solamente 65 giornalisti professionisti e dieci volte di più negli anni 1880.
Autrice di una teoria sui corrispondenti di guerra, Éva Gorda, nota che durante gli anni precedenti il conflitto ed anche durante la guerra, l’opinione pubblica ungherese riteneva che non si potesse credere se non alla carta stampata. Il cinema e la radio esistevano già, ma la gente era convinta che solo i giornali fossero credibili. Questa osservazione da una buona percezione dell’impatto della stampa.
All’inizio, il tono è all’esaltazione: le cattive notizie sono passate sotto silenzio, poi la censura entra in azione ed appaiono le colonne vuote. Queste colonne vuote sono riempite di pubblicità o dei risultati delle corse dei cavalli. In ogni caso, questo mezzo che è la stampa è comune a tutte le altre forme di propaganda
Così, i giornali della stampa nazionale riproducono i testi delle conferenze organizzate nel quadro del Comitato centrale di Soccorso. L’iniziativa di tenere queste conferenze, d’altra parte, veniva dal proprietario e capo-redattore della Gazzetta di Budapest, Eugène Rákosi (nessun rapporto con il futuro dittatore stalinista Mátyás Rákosi).
In modo significativo, la serie fu inaugurata da Ottokár Prohászka, un vescovo antisemita ed accanito nemico del movimento operaio rivoluzionario.
La prima seduta fu tenuta l’8 novembre 1914 in un grande albergo di lusso, davanti ad un pubblico di 300-400 persone tutte appartenenti alla “società colta” delle classi medie ed alte: solamente persone abituate alle inaugurazioni, alle serate mondane ed ai ricevimenti, per la maggior parte delle belle signore e delle belle ragazze.
Quali sono stati i temi dibattuti di questa prima conferenza?
Il vescovo ha presentato il conflitto come una prova spirituale, prima di sviluppare i temi dei vantaggi della guerra e degli inconvenienti della pace: quest’ultima genera una “cultura molle e sentimentale”, diceva, mentre durante la guerra il sacrificio dell’agire rimpiazza i dibattiti che dividono la società.
Per il sant’uomo, anche il lutto, invece di restare egoisticamente individualista, deve conservare la sua dignità davanti all’immagine dell’eroe. Questo sarà uno dei temi preferiti dei discorsi.
Le successive conferenze parlano instancabilmente e con esaltazione dell’eroismo, della “purificazione morale”, della virilità, del “miracolo dell’entusiasmo”, come tante qualità sublimi generate dalla guerra: ci sono di quelli che fanno l’apologia della poesia di guerra, affermando che “la guerra è essa stessa una poesia!”
Edificante! Lei ha citato un altro organismo, il «comitato nazionale di Soccorso militare». Quali erano le sue attività?
Il Comitato nazionale di Soccorso militare era nello stesso tempo sia un organismo di azione sociale che un mezzo di propaganda. La sua attività copriva l’insieme del paese tramite le conferenze organizzate nelle città principali; e come nel caso precedente, i giornali apportavano il loro contributo pubblicando degli annunci o dei resoconti.
La prima seduta ebbe luogo l’8 dicembre 1914. L’oratore era il ministro delle Difesa in persona. “Nella sua splendida uniforme ornata delle sue decorazioni”, egli parlava “con un nobile pathos ed una convinzione profonda” per elettrizzare il suo pubblico: “statisti, generali, donne “meravigliose” come scritto nel resoconto. Il ministro faceva appello alla “auto mobilitazione”, desiderando che ogni cittadino diventi un soldato.
Le conferenze seguenti si svolgevano anch’esse davanti ad un pubblico in maggioranza femminile. Eppure, la denigrazione della cultura effeminata ritornava spesso nei discorsi, in quanto gli oratori glorificavano soprattutto la cultura virile che favorisce l’azione.
Questa visione del mondo alquanto semplicista pretendeva di convincere il grande pubblico?
Un gran numero di università, di scuole superiori e di licei hanno anch’esse creato le loro proprie conferenze guerresche. La Facoltà di Scienze di Budapest le ha organizzate sul modello tedesco e con frequenza settimanale, dalla fine del 1914.
Le sedute erano gratuite ed accoglievano un vasto pubblico. Per convincere i giovani e la popolazione in generale, ogni professore esponeva la giustificazione della guerra dal punto di vista della sua materia.
Tra i temi messi sul tappeto, troviamo il culto della volontà, la condanna dell’individualismo, la superiorità delle potenze centrali, o ancora, la necessità di difendere la causa della civiltà europea che la perfida alleanza dell’Inghilterra e della Francia con la barbara Russia aveva lasciato cadere.
A partire dal 1916, quando le perdite di vite umane appaiono in tutta la loro enormità e che la speranza di vincere la guerra si allontana, possiamo parlare di un’accentuazione del ruolo dello Stato e del “Distretto militare della stampa” nella propaganda. Pianificato fin dal 1909, questo organismo arriva allora al completamento della sua organizzazione.
Come dicevo prima, era una macchina di propaganda completa con le sue dodici unità. Esso contava 400 persone nel 1914 ed 800 nell’estate del 1918; il personale comprendeva scrittori, giornalisti, pittori e disegnatori, scultori, fotografi.
Qual era il messaggio trasmesso da questa vera e propria squadra spaccatutto prodotta dalla “società civile” austro-ungarica?
I corrispondenti di guerra non dovevano parlare se non dei successi, gli articoli che essi preparavano per i giornali passavano dapprima per la censura. Quando i giornalisti erano autorizzati a visitare il fronte, era sempre e solo in occasione dei successi e senza mai aver potuto assistere ai combattimenti; essi potevano vedere i preparativi ed i terreni degli scontri solo quando questi ultimi erano stati “puliti”.
Bisognava che i giornalisti glorificassero l’eroismo dei soldati, la competenza degli ufficiali e l’organizzazione militare nel suo insieme.
Era la stessa cosa per gli artisti. Dopo di aver visitato il fronte, questi ultimi dovevano ogni volta presentare una serie di quadri e di disegni destinati alle esposizioni. Gli artisti realizzavano anche delle cartoline postali, delle litografie a colori, dei segnalibri, delle miniature, diplomi, medaglioni, opuscoli, etc.
Con i quadri selezionati, una prima esposizione ebbe luogo il 6 gennaio 1916 al Salone nazionale di Budapest; il pubblico poteva vedere 802 opere d’ispirazione guerresca di 51 artisti.
Uno di questi dirà che bisognava evitare la rappresentazione degli orrori, dei feriti giacenti nel loro sangue, l’accumulo dei cadaveri, tutti soggetti contrari alla glorificazione della guerra.
Anche i fotografi non potevano avvicinarsi ai combattimenti. Le innumerevoli foto trattano della vita di tutti i giorni dei soldati e degli aspetti materiali della loro esistenza.
Una lettera riprodotta nel 1914 dalla rivista degli scrittori antimilitaristi Nyugat (Occidente) diceva: «Sono circondato da tutti gli orrori della guerra. Peccato che io non sia libero di descriverli. Terrore, sofferenza, privazioni, villaggi in fiamme. »
Eppure, all’epoca, i pacifisti disponevano anch’essi dei propri organi di stampa…I loro argomenti e parole d’ordine non erano così efficaci?
Il partito social-democratico rappresentava la principale forza d’opposizione alla guerra…fin quando la guerra non è scoppiata. Organizzazione politica e sindacale di massa, esso esercitava, grazie specialmente al suo quotidiano, il Népszava (Voce del popolo), una larga e profonda influenza nella classe operaia. Seguendo le consegne della IIa Internazionale), diffonde un’intensa propaganda pacifista, soprattutto durante il mese che intercorre dall’attentato di Sarajevo alla dichiarazione di guerra.
Il giornale del partito spiega che l’attentato è la conseguenza dell’imperialismo austro-ungarico e dell’oppressione nazionale che grava sui Serbi; il giornale prevede lo sciopero generale reclamando la solidarietà internazionale degli operai e denuncia il “parlamento di classe” nel quale tutti i partiti hanno votato per la guerra.
La denuncia prende di mira anche la stampa borghese, interamente votata al bellicismo. Un editoriale appare premonitore quando avverte che la guerra potrebbe comportare sconvolgimenti sociale ed il crollo della monarchia. Oltre ai social-democratici, e fuori dell’Assemblea nazionale, furono i borghesi radicali ad porsi con determinazione contro la guerra; dicevano che solo gli ambienti feudali e bancari avevano interesse a scontrarsi con la Serbia. Essi credevano che, insieme, i social-democratici ed alcuni settori della borghesia avrebbero potuto impedire la guerra imperialista. Ma quando la guerra è scoppiata, si sono comportati come l’apparato social-democratico.
Tutte le voci umaniste si sono spente per «realismo»?
Non c’erano che due gruppi intellettuali che conserveranno attivo il loro antimilitarismo. Da una parte erano gli scrittori e gli artisti raggruppati intorno al militante socialista e pittore avanguardista Louis Kassak, che si distinguevano dal bellicismo di fondo. Kassak pubblicava una rivista dal titolo L’azione poi, dopo che questa fu vietata, la rivista Oggi. Il suo gruppo, che organizzava specialmente delle conferenze in favore della pace, ha reagito con forza quando il partito social-democratico ha abbandonato il suo pacifismo e sposato la causa guerrafondaia.
In che modo i belligeranti hanno potuto imporsi confrontandosi agli argomenti e alle parole d’ordine dei pacifisti?
Il potere ha accreditato dall’inizio l’idea che i pacifisti si tagliavano fuori dalla nazione. Con l’entrata in vigore di misure eccezionali, il partito riformista ed il suo giornale erano minacciati di sparire, mentre i dirigenti volevano salvare l’apparato a tutti i costi. Ma invece di restare in silenzio si sono messi a sostenere e giustificare la guerra imperialista; essi usavano gli argomenti più assurdi, come la difesa della democrazia o la conquista, sul campo di battaglia, di ogni tipo di diritto per gli operai.
Il secondo gruppo che è restato intransigente sul proprio antimilitarismo era il Circolo Galileo.
Questa società di libero pensiero ed anticlericale perseguiva dalla sua fondazione nel 1908 un’attività orientata verso l’acquisizione e la diffusione di conoscenze scientifiche. Quando la maggior parte dei suoi animatori sono dovuti partire al fronte, gli ha dato il cambio una seconda generazione più giovane; la squadra in questo modo contava più donne che prima. Fin dall’inizio, il Circolo ha messo al centro dei suoi lavori l’impatto economico e sociale della guerra; esso organizzava regolarmente conferenze sulla pace, invitando gli oratori più in vista della sinistra, radicali e social-democratici. Questo programma era spesso disturbato dai divieti o dagli avvenimenti militari.
L’antimilitarismo del Circolo era basato sulle idee marxiste, ma attingeva direttamente dall’opera di Gustave Hervé, chiamato apostolo dell’antimilitarismo dal poeta Ady. Dopo la sua spettacolare inversione di posizione diventò un reietto, ed il porta bandiera della lotta alla guerra sarà Jean Jaurès. Nel 1915 i galileisti commemorarono con fervore il primo anniversario dell’assassinio del leader socialista francese: era un momento importante delle loro manifestazioni per la pace.

Il 25 maggio 1913, Jean Jaurès pronunciò un discorso pacifista contro la legge che prevedeva 3 anni di servizio militare, davanti ad una folla di 150 000 persone raccoltesi al Pré Saint-Gervais
Dal 1916, il circolo lancia dei corsi di russo, l’antico motto «Apprendere ed insegnare» è rimpiazzato dal «Parliamo anche russo, agiamo anche da russi» A far data dal 1917, i galileisti partecipano regolarmente alle manifestazioni sindacali contro la guerra; di quella del 17 novembre 1917 essi sono stati i principali organizzatori. Poi sotto la copertura dei loro seminari e conferenze cominciano a far arrivare, clandestinamente, pubblicazioni antimilitariste al fronte; fanno anche realizzare dei falsi esami medici che attestano che gli uomini di sinistra soffrono di tubercolosi, questo per evitare la loro partenza al fronte.
Nel gennaio del 1918, furono lanciati centinaia di volantini e manifesti furono affissi sulle mura della caserme di Budapest. In sintesi, i testi facevano appello a trasformare la guerra mondiale in guerra civile. L’inchiesta della polizia portò all’arresto di una trentina di galileisti, alla chiusura del Circolo, gli archivi, la biblioteca e la cassa furono sequestrate. Dopo otto mesi di detenzione preventiva, due militanti furono condannati a due e tre anni di prigione. Saranno presto liberati dalla folla rivoluzionaria del 30 ottobre 1918
Le reazioni popolari contro la guerra sono state importanti in Austria-Ungheria? Con quali difficoltà hanno dovuto scontrarsi?
Parlare di reazioni popolari sarebbe usare una parola grossa. Quello che chiamiamo ai giorni nostri con un po’ di pedanteria l’élite politica ed intellettuale, dunque queste persone erano al centro della discussione, e nella loro immensa maggioranza adulavano i sentimenti bellicosi, glorificavano e giustificavano la guerra. Ed in occasione del centenario, da quello di cui sono a conoscenza, i contadini, gli operai e le altre categorie popolari non apparivano affatto negli innumerevoli colloqui. Per caso mi sono imbattuto su un frase dello storico ungherese Andras Gerö: l’opinione pubblica del paese si pone piuttosto dalla parte del partito della pace”.
Concretamente le reazioni popolari si sono manifestate contro le conseguenze della guerra: le privazioni, le requisizioni, la militarizzazione delle officine. In questa lotta, le reazioni popolari erano sostenute dai riformisti, cosa certamente ambigua.
La stampa dei sindacati e social-democratica era ad esempio libera di denunciare l’aggiotaggio, la penuria e, in generale, la rapacità capitalista, nella misura in cui questa propaganda era nell’interesse di migliorare l’andamento della macchina della guerra.
Ma tutto questo non doveva andare troppo avanti. Non appena alcuni scioperi o sommosse per la fame minacciavano la causa della guerra, la repressione si faceva sentire in modo esemplare, cioè in modo militare. In caso di rivolte organizzati, una pratica consisteva nell’inviare i capi delle rivolte al fronte; ma talvolta le autorità esitavano a ricorrere a questo metodo, temendo che l’assenza dei dirigenti operai non fosse ancora più pericolosa.
Quale è stato l’impatto della Rivoluzione d’Ottobre, in particolare per il fenomeno della diserzione al fronte, ed in maniera generale sulla ricostruzione del movimento contro la guerra?
Le autorità militari segnalavano gli effetti della rivoluzione bolscevica sulle diserzioni. Questo avvenimento a causato in più il ritorno in massa dei prigionieri di guerra dopo il trattato di Brest-Litovsk, nel marzo 1918. Essi portavano con sé il ricordo della fraternizzazione ed il sentimento che la guerra fosse finita, mentre l’esercito contava su questi contingenti per rinforzare il fronte italiano. A questo scopo, l’esercito ha proceduto con metodi differenti come gli internamenti, le selezione o la rieducazione.
Infatti, dall’abdicazione di Nicola II, le fraternizzazioni diventarono molto più ampie. Durante le feste di Pasqua, le fraternizzazioni hanno interessato tutto il fronte orientale. I movimenti spontanei furono in seguito incoraggiati dal potere sovietico. Il ritorno dei vecchi prigionieri di guerra austro-ungarici farà crescere l’opposizione alla guerra, tanto più che la monarchia e le sue armate sono allo stremo. Negli ammutinamenti che sono numerosi in questo periodo, si trovano agitatori e portavoce contagiati dalle idee bolsceviche, come si diceva a quel tempo.
Mihaly Karolyi presidente della Repubblica, 16 novembre 1918
L’11 e 13 novembre 1918, Carlo IV rinuncia ai suoi titoli d’Imperatore d’Austria e di Re d’Ungheria. E’ la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. Mihaly Karolvi diventa allora il primo presidente della Repubblica popolare d’Ungheria, ma la crisi costituzionale continua. Qual è in contesto sociale in quel momento?
La guerra ha messo il paese in una situazione terribile. L’economia è disorganizzata, una buona parte delle risorse minerarie perduta con i territori perduti; la produzione crolla, la disoccupazione e l’inflazione colpiscono duramente le classi popolari. Dalle regioni de l’anziano regime divenuti “Stati Successori” affluiscono centinaia di migliaia di rifugiati verso l’Ungheria ridotta ad un terzo della sua superficie antecedente la guerra. Molti fanno parte dei sistemi amministrativi e polizieschi, che cercano riparo dalle vendette dei nazionalisti che non avevano sempre trattato piacevolmente, a dir poco. Per mancanza di abitazioni essi sono ammassati nei vagoni, un numero abbastanza grande di essi andranno a riempire les squadre del terrore bianco ed i movimenti di estrema destra nel periodo tra le due guerre.
Nel febbraio-marzo 1919, la crisi sociale spinge i lavoratori all’azione. Le occupazioni delle fabbriche si moltiplicano, spesso i consigli operai prendono la direzione delle fabbriche. IL 17 marzo, messo di fronte al fatto compiuto, il governo decide di creare un ministero incaricato della socializzazione delle imprese industriali. Il 18 marzo, in un gran centro industriale di Csepel, cinquemila operai commemorarono l’anniversario della Commune di Parigi e prendono posizione per la proclamazione immediata della dittatura del proletariato; l’indomani, ventimila disoccupati sfilano davanti al ministero dell’approvvigionamento: guidati da militanti comunisti, essi domandano soccorso e l’espropriazione dei mezzi di produzione; il 20 marzo, c’è lo sciopero generale dei tipografi, che prende rapidamente un carattere politico.
Nelle campagne, i contadini poveri e gli operai agricoli procedono, nella Transdanubie in particolare, alla spartizione dei grandi possedimenti, si assiste anche a sentenze popolari e a scene di saccheggi. In molti posti, gli abitanti espellono gli amministratori municipali che durante la guerra si erano occupati delle requisizioni e di altre attività impopolari. Per reprimere queste azioni, il governo Karolyi ha organizzato delle forze speciali dirette da ufficiali del precedente esercito ed appoggiate dai contadini ricchi. Nei villaggi, si succedono allora, dei raid punitivi ed esecuzioni capitali sommarie. Questa ondata di repressione avrebbe fatto più vittime tra i contadini di tutte quelle di cui si è a conoscenza sotto la monarchia.
Il 20 marzo arriva l’ultimatum della conferenza di Parigi che provoca le dimissioni di Karolyi. In cosa consisteva questo ultimatum e quale è stato l’effetto sulla nascente repubblica?
L’ultimatum in questione, noto con il nome di Nota Vix, è una lettera data a Karolyi dal tenente-colonnello Ferdinando Vix, capo della missione militare dell’Intesa a Budapest. E’ un’ingiunzione emessa dalla conferenza di pace di Parigi il 26 febbraio 1919, in vista di rivendicazioni territoriali. Alle truppe ungheresi ancora presenti all’est d’una linea Arad- Nagyvarad-Szatmarnémeti (Arad-Oradea-Satu Mare) viene intimato di ritirarsi ad un centinaio di chilometri verso ovest, quasi fino al fiume Tisza.
Nel territorio evacuato, che corrispondeva a tutta la parte orientale dell’Ungheria, gli Alleati prevedevano la creazione d’una zona neutra larga tra 40 e 50 chilometri, incluse in particolare le città di Debrecen, Szeged et Gyula; più ad est, l’esercito reale di Romania sarebbe venuto ad occupare la zona.
Ma a febbraio questo esercito romeno non ha ancora raggiunto i limiti della Transilvania, che il suo governo aveva preteso, secondo l’accordo segreto con gli occidentali concluso a Bucarest nell’agosto 1916. In appoggio alla sua esigenza, il Primo ministro Bratianu, ha esposto a Parigi il pericolo del bolscevismo, che minacciava nello stesso tempo l’Ungheria, L’Ucraina e la Bessarabia. C’è bisogno che gli Alleati apportino i loro appoggio, diceva il Bratianu, se essi volevano che la Romania resti u bastione contro il bolscevismo. L’idea dell’occupazione rumena e della creazione d’una zona neutra era particolarmente ben accolta dallo stato maggiore francese e tanto più che il maresciallo Foch aveva appena messo a punto il suo progetto d’intervento contro la Russia sovietica; e nell’ottica di questa prospettiva, gli eserciti polacco e rumeno sembravano i più operazionali.
La nascita della repubblica comunista è dunque direttamente legata a questo contesto. Avendo abdicato Karolyi, il nuovo regime assume, tra mille difficoltà, la guerra contro gli eserciti ceco e rumeno. I lavoratori mobilizzati in una Armata rossa ottengono dei successi nella riconquista della Alta-Ungheria (attuale Slovacchia), mentre i rumeni restano bloccati dall’offensiva dell’Armata rossa russa en Bessarabia. La congiunzione tra le due Armate rosse sembra possibile. Ma in seguito a due intimazioni consecutive di Clemenceau, le truppe ungheresi devono smettere le loro operazioni e ritirarsi sulle frontiere ridisegnate dalla conferenza di pace. In contro-partita, il governo dei Consigli crede che sarà riconosciuto ufficialmente e che, in seguito alla seconda nota Clemenceau, i rumeni evacueranno i territori che occupavano ad est di Tisza. Né l’una né l’altra di queste promesse furono mantenute. L’abbandono dei territori riconquistati grazie a dei combattimenti difficili demoralizza l’Armata rossa ungherese e, da parte loro, le truppe rumene lungi dal ritirarsi, varcano la Tisza e si abbandonano ai saccheggi, occupano Budapest e assicurano l’avvento del regime controrivoluzionario di Horthy: molti comunisti saranno rinchiusi nei campi rumeni presso Bucarest.
Quale fu allora la reazione dei paesi dell’Intesa di fronte a questa rivoluzione pacifica.
L’arrivo al potere dei comunisti ha provocato una grossa sorpresa presso le potenze dell’Intesa. Alla conferenza di pace, c’è ormai una questione ungherese. Il 6 aprile, il generale Franchet d’Esperey, chiede espressamente a Clemenceau l’intervento militare; si teme la propagazione del bolscevismo.
Consultando la stampa francese dell’epoca, mi sono imbattuto in un trafiletto dell’Est Repubblicano del 23 luglio 1919 che riportava un’intervista del generale Pellé, capo della missione militare francese a Praga, aveva concesso à la Nouvelle Presse Libre (Nuova Stampa Libera) di Vienna e che esprimeva bene lo stato d’animo della conferenza di Parigi. “Per quanto riguarda l’offensiva contro Béla Kun, diceva il generale, la questione ungherese non è una questione isolata, l’Ungheria è un avamposto di Lenin. Alla volontà del bolscevismo l’Intesa vuole opporre una volontà unica e formare contro di esso un fronte unico. Se l’Intesa lo vuole, essa marcerà perché ne ha la forza. Il tempo dei negoziati è passato. Noi non vogliamo la guerra, ma l’ordine e la pace dal punto di vista nazionale e sociale.”
Manifesto della Repubblica dei consigli d’Ungheria tra marzo ed agosto 1919
D’altra parte, per completare la mia risposta alla sua domanda, trovo interessante citare la reazione de l’Humanité, che non era ancora comunista. Di fronte all’intervento contro l’Ungheria dei consigli, il giornale in effetti scriveva il 6 luglio 1919: “Sembra che la caduta di Béla Kun sia stata annunciata troppo presto. (…) Béla Kun evidentemente sarà obbligato a cedere davanti alla forza poiché non ha avuto il tempo, come Trotskij, di organizzare un’armata rossa capace di resistere all’invasione straniera. Qualunque sia l’opinione che ci si sia fatti del governo dei Soviet ungheresi, il proletariato francese si ricorderà che è stato un generale francese che ha soffocato la rivoluzione ungherese, tramite mercenari rumeni e cechi.
Se il governo di Béla Kun fosse stato rovesciato dagli ungheresi stessi, noi non avremmo nulla da ridire. Ma noi protestiamo qui nel modo più energico possibile contro questa politica brutale: l’intervento militare negli affari interni di un paese che ha il diritto sovrano di decidere da solo il suo proprio destino”.
Aggiungiamo che in qualità di capo della missione militare, il generale Pellé sarà l’attore principale della creazione dell’esercito cecoslovacco, del quale divenne il primo capo di stato maggiore. Crea scuole militari e centri d’istruzione per lo sviluppo di questo esercito. E’ lui che condurrà il contrattacco per bloccare l’Armata rossa ungherese nell’alta Ungheria.
Contrariamente alla terribile situazione che conobbe la Germania, la social-democrazia ungherese ed il partito comunista ungherese fusero in un solo partito, il Partito Socialista di Ungheria. Come descriverebbe i loro rapporti all’interno del partito?
Al momento dell’unificazione, i social-democratici contavano tra 700 e 800 000 iscritti, ed i comunisti circa 40 00; un libro inglese pubblicato nel 1967 indica tra 4000 a 7000 “militanti” comunisti. In ogni caso, questi ultimi erano scarsamente organizzati, non avevano delle vere radici nelle masse e non avevano la maggioranza nei Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini.
La fusione è stata conclusa senza discussioni nel partito. Un relatore dirà davanti al comitato esecutivo dell’Internazionale comunista che la maggior parte dei dirigenti erano ostili alla fusione. In particolare, gli anziani prigionieri di guerra, detti i “diplomati della Rivoluzione d’ottobre”, disapprovavano la liquidazione della loro organizzazione leninista. Kun dal canto suo, ha affermato che i comunisti erano i solo beneficiari della fusione.
Infatti questi ultimi si trovavano annegati nella massa del partito social-democratico che, in oltre, ha perso molto del suo carattere operaio dall’ottobre 1918, a causa dell’arrivo nel partito di una grande parte di elementi della piccola borghesia. D’altra parte, i migliori militanti comunisti erano stati assorbiti dall’Armata rossa, cosa che ha contribuito all’indebolimento dell’importanza politica del loro partito.
Alla fine quel che si deve constatare è che l’apparato riformista poteva sempre contare sulla situazione precedente, sulle posizioni che esso ha conservato nel partito, nei sindacati, nelle associazioni diverse, mentre il partito comunista non ha avuto il tempo di costituire le sue staffette nella classe operaia. La simpatia delle masse non poteva controbilanciare l’influenza della vecchia direzione riformista, del tutto in grado di ricostituire la sua rete di funzionari, di delegati e d’altri responsabili, tutti favorevoli al mantenimento della vecchia burocrazia dello stato.
Nel suo libro, lei cita il messaggio che Lenin trasmise à Béla Kun, il 23 marzo 1919, nel quale il leader della rivoluzione bolscevica metteva in guardia Kun dall’errore che sarebbe commesso nel caso in cui la “tattica russa” fosse stata limitata. Qual era la specificità della rivoluzione ungherese et quali saranno le sue prime misure?
Il telegramma citato riguardava i rapporti di forze in seno al governo, poiché la fusione tra i due partiti non ha annullato i colori delle vecchie appartenenze politiche. Il leader comunista Béla Kun, commissario agli Esteri, era il vero capo del Consiglio di governo, ma tutti gli altri posti di commissario (equivalente dei vecchi ministri) appartenevano ad elementi del centro e della sinistra del vecchio partito social-democratico; in compenso i vice-commissari erano, nella loro grande maggioranza, comunisti.
Tutto ciò, cioè i rapporti tra il partito nato dalla fusione, il potere del governo e la questione del capo dello Stato non ha potuto essere chiarita a causa delle circostanze.
Per la specificità di questa rivoluzione del 21 marzo 1919, essa ha dato adito ad apprezzamenti diversi della posterità. Uno dei migliori conoscitori del periodo, lo storico ungherese Tibor Hajdu, così che diversi articoli e dichiarazioni provenienti da partiti comunisti occidentali hanno teorizzato che il proletariato poteva conquistare il potere per via pacifica; più vicino alla realtà storica, l’autore d’una tesi sulla questione, Dominique Gros sottolinea che non si poteva isolare l’avvenimento del 21 marzo dalle sue condizioni interne e dello stato della rivoluzione e della contro-rivoluzione internazionale: più concretamente, il proletariato ungherese era armato, mentre la reazione non aveva né armi né forze di repressione efficaci.

«Canaglie! è questo che volevate? » Franchet d’Espèrey, Lloyd George e Wilson sono a sinistra, Clemenceau ed il re Ferdinando di Romania sono a destra del tavolo. Manifesto realizzato da Mihàly Bi’ro’ (1919).
Dal 22 marzo, il nuovo potere ha annunciato il suo programma: trasformazione dell’Ungheria in Repubblica dei consigli, socializzazione della grandi proprietà, delle miniere, della grandi fabbriche, delle banche, delle imprese di trasporto; la riforma agraria sarà fatta non dalla spartizione della terre ma dalla creazione di cooperative agricole. Il nuovo regime prenderà misure di una implacabile severità contro gli speculatori che approfittano della penuria e della miseria delle masse. Per far valere la dittatura del proletariato e difendere il paese contro gli invasori cechi e rumeni, viene annunciata la creazione di un grande esercito proletario.
In fin dei conti, l’esperienza della Repubblica ungherese dei Consigli non durerà che poco tempo, poiché l’Armata rossa capitolò di fronte all’invasione dell’esercito reale romeno sostenuto dall’Intesa. Fece seguito il periodo del «terrore bianco» di Horthy, che alcuni fanno un parallelo col “terrore rosso”. Lei mette in guardia contro il “falso dibattito” dei due terrori. Perché?
Per cominciare, impelagarmi nelle macabre statistiche farebbe supporre che io consideri che uccidere per esempio 150 persone sia meno grave che di ucciderne 160…
Ma nel contesto storico in questione, quel che falsa soprattutto il paragone è che furono le classi dominanti che hanno, da secoli, portato come esempio la violenza come mezzo d’esercizio del potere. La memoria popolare ha conservato il ricordo del trattamento degradante degli uomini sotto il regime dei signori, delle feroci repressioni delle “jacqueries” (sollevazione dei contadini contro la nobiltà nell’anno 1358 durante la prigionia del re Giovanni. Furono chiamate jacquerie da Jacques nome dato ai contadini) e, più di recente, della violenza poliziesca che la squadra di Tisza ha fatto finanche in seno al Parlamento Gli oppressi reagivano a loro volta, spontaneamente, ispirandosi in qualche modo da questi precedenti Ed il gran massacro che il popolo aveva appena conosciuto era anche causa dei “responsabili politici”, come si dice adesso, ed la carneficina nella quale questi signori hanno condotto gli uomini ha contribuito in gran parte a svalutare la vita umana
Infine, sempre a proposito di questo parallelo tra i due terrori, è stato sottolineato da dirigenti del partito radicale, che erano lungi dal simpatizzare con i comunisti, che questi ultimi erano motivati da un programma ed un ideale politico, mentre la gente di Horthy si abbandonava ad atti di vendetta caratterizzati da torture spaventose; anche i loro argomenti erano falsi poiché mentre si professavano nazionali hanno fatto affidamento sull’invasore rumeno, ed hanno firmato il trattato che ha sancito lo smembramento del paese.
Quest’anno chiude il ciclo delle commemorazioni del centenario della guerra 14-18. Come storico e specialista di questo periodo, quali sono le sue impressioni sulla presentazione che ne è stata fatta?
Nel maggio 2014, ho partecipato ad un convegno di tre giorni organizzato dall’Università di Budapest. Questa esperienza insieme alla consultazione di diversi programmi in Ungheria (un Rendez-vous della Storia à Blois ha riguardato anch’esso la Grande Guerra, con conferenze nello stile di “cultura di guerra”) me danno l’impressione che, se considero l’avvenimento dal punto di vista dei lavori storici, abbiamo avuto a che fare più ad una storia militare che ad una storia di guerra, e di più ad una storia di élites et di responsabili politici che alla storia di quelli che avevano direttamente incassato la catastrofe. Io intendo per storia di guerra lo studio dell’avvenimento in tutte le sue dimensioni: militare, certo, ma anche politica, economica e soprattutto sociale.
Ed è questa idea che mi ha spinto d’altra parte a scrivere rapidamente l’opuscolo che mi è valso l’onore di questa intervista con lei. Avrei voluto basarmi su ricerche riguardanti questioni come la fraternizzazione, le diserzioni, il trattamento e l’accoglienza ai feriti, la sorte dei mutilati dopo il conflitto, i rapporti all’interno degli eserciti tra soldati e ufficiali, la “gestione” dei morti, le penurie, le requisizioni, i profitti di guerra, le sommosse e gli ammutinamenti, l’accoglienza riservata dal popolo alla propaganda. Ancora dal punto di vista dei lavori di ricerca, quel che i migliori storici universitari francesi della questione chiamavano negli anni 1980 la “cordiale connivenza”, cioè l’azione congiunta della finanza, delle comunità imprenditoriali e della diplomazia delle potenze rivali, in breve lo studio e l’aggiornamento dell’imperialismo non ha attirato l’attenzione delle innumerevoli relazioni. Non ho trovato alcun lavoro che avrebbe messo in evidenza il ruolo fondamentale della banche e dell’esportazione di capitali nella formazione e consolidazione dei sistemi sovranazionali, che hanno reso la guerra una guerra mondiale.
Ricordo ancora qualche cifra del mio intervento in occasione del convegno di Budapest.
Tra il 1888 ed il 1914 i prestiti bancari e gli investimenti francesi in Russia sono passati da 1.46 miliardi a più di 12 miliardi di franchi; e negli ultimi negoziati nel 1913, il governo francese ha concordato con lo zar la costruzione di nuove linee ferroviarie attraverso i territori polacchi, al fine di assicurare il più rapidamente possibile il raggruppamento e la più grande rapidità delle truppe russe.
D’altra parte, se si ammette qui e là l’importanza cruciale dell’antagonismo tedesco-britannico, questa constatazione non è trattata secondo la sua propria scala, cioè che esso non appare come il perno in rapporto a numerosi problemi regionali; esso è nascosto nella moltitudine dei fattori portatori di guerra, o ancora esso appare come incollato a considerazioni interminabili che si riferiscono alle questioni balcaniche.
A questo proposito, anche in Francia, I sonnambuli di Christopher Clark mi è sembrato molto significativo: la descrizione attraverso il menu dell’assassinio della coppia Obrenovitch è un vero romanzo poliziesco, poi il lettore è sommerso da innumerevoli dettagli della storia diplomatica. Dal ricordo che ne conservo, non è un buon libro, anche se è sempre interessante conoscere gli elementi fattuali. Se il libro è stato promosso ed adulato in tutti i modi, penso sia a causa della sua insistenza sul problema serbo, un vecchio trucco che consiste a spiegare le cose sotto un solo aspetto che è ingrandito esageratamente per nascondere il quadro generale, in questo modo l’autore è riuscito a far passare inosservato il ruolo essenziale della Germania: un approccio che l’autore adatta bene, deliberatamente o inconsciamente, all’ideologia politicamente corretta dell’europeismo attuale.
Adesso, considerando il centenario sotto l’angolo della memoria, avrei voglia di porre questo tipo di domande: perché gli autori che, oltre la condanna dello stalinismo, hanno contribuito a criminalizzare il comunismo non hanno sentito il bisogno di globalizzare e portato il loro talento per criminalizzare la guerra mondiale ed i suoi generali massacratori? Perché tutti questi esperti in tribunale non hanno redatto il loro libro nero dei regimi militarizzati totalitari della guerra totale?
Poiché è stata inventata una cosa come la cultura della guerra, che ognuno può capire a modo suo, ma che, a mio parere, servirà soprattutto a render banale o folcloristica la barbarie.
Quali lezioni dovrebbero trarre le nuove generazioni sul 14-18?
Spero che la sua domanda non mi faccia sembrare un predicatore… Dal momento che sono stato corrispondente dipartimentale del Comitato di storia della 2° guerra mondiale e dell’IHTP (Istituto di storia del presente) che gli ha succeduto, è questo periodo che conosco in modo più approfondito, al livello delle ricerche e dei dibattiti che attraversano la sua storiografia.
Per la 1a guerra mondiale, consiglierei di leggere dapprima i classici del marxismo sull’imperialismo; il testo di Rosa Luxembourg per esempio su La crisi della social-democrazia è luminoso. All’Università (in Francia), il grande classico «liberale» è Pierre Renouvin per la storia delle relazioni internazionali.
Gli autori che hanno esposto delle ricerche empiriche e che io ho “frequentato” durante i miei studi alla Sorbona erano dei professori come René Girault, Raymond Poidevin, Jean Bouvier, Jacques Thobie…Essi hanno lavorato molto sulle esportazioni di capitali. Sono stato più che sorpreso al Rendez-vous della Storia di Blois consacrato alla grande guerra, dove nessuna relazione ha evocato questi lavori…
Più di recente ho consultato l’inglese Alexander Anievas, che si occupa dei concetti e teorie marxiste che riguardano le origini della guerra, egli si inspira soprattutto da L. Trotskij, se la memoria non m’inganna.
Ho anche consultato La Grande Guerra delle classi e seguito la conferenza in rete di Jacques Pauwels che lei conosce bene. Secondo me viviamo un’epoca reazionaria ed oscurantista. Per non farsi sommergere dai rumori mediatici, dalle innumerevoli sciocchezze ed alla distruzione dei cervelli, le nuove generazioni devono far lo sforzo intellettuale contro l’amnesia: esse hanno un dovere di storia per puntellare il loro dovere di memoria; la memoria del popolo ed anche di classe, con le sue pene, le sue aspirazioni e le sue lotte, come si possono conoscerne nei buoni libri di storia, nelle opere d’arte e grazie ai canti, che sono, particolarmente in Francia, di una ricchezza straordinaria. Nessuno dovrebbe ad esempio ignorare la Chanson de Craonne…(La canzone di Craonne).
Che sguardo porta sugli sconvolgimenti del mondo contemporaneo?
Penso da un po’ di tempo che le forze che nel 14-18 hanno distrutto l’Europa nel nome delle nazioni, distruggono oggi le nazioni nel nome dell’Europa. Opera della Chiesa cattolica e delle banche, questa Europa sovranazionale è in primo luogo una macchina per distruggere i servizi pubblici, che sono, dalla più anziana antichità, considerati fondamentali con la nozione stessa di civilizzazione.
La concorrenza libera non falsata è la guerra di tutti contro tutti, una forma di barbarie. La pretesa unione ha risuscitato l’odio fra i popoli, generando spesso i nazionalismi di più triste memoria in Europa.
Ma ricordando questa inscrizione du Monument des maquis de l’Ain (del Monumento alla resistenza de l’Ain): «Dove io muoio rinasce la Patria», penso che i pacifisti e gli internazionalisti sensati non dovrebbero lasciare la nazione nelle mani dei nazionalisti e degli sciovinisti. Non ci si può realmente mettere nella pelle di un’altra nazione se non si è interiorizzato le migliori tradizioni della propria. Il cosmopolitismo anche, evocato così spesso, alla fine non è che la foglia di fico del disordine capitalista globale e feroce: la volpe è diventata più libera nel pollaio più libero. E voler adattare l’ordine pubblico del proprio paese alle necessità del capitalismo globalizzato è un’ingenuità se non una mostruosità
La libera circolazione, gli scambi tra le scuole ed altri incontri sono evidentemente una cosa buona, ma i giovani dovrebbero capire anche che la guerra non è la conseguenza dei sentimenti e delle passioni umane ma è conseguenza delle istituzioni e delle necessità economiche e sociali dell’ordine, o piuttosto del disordine capitalista.
Fonte : Investig’Action
Fonte originale: L’Altra Storia