“I mass media presentano i colpi di stato moderni come una difesa della democrazia”
- 24 Dic 2016
Già caporedattore di Le Monde Diplomatique, Maurice Lemoine è soprattutto un fine conoscitore della storia contemporanea del Sud America. In questi ultimi 40 anni egli ha condotto numerose inchieste sul luogo, soprattutto in America Centrale, ma anche in Venezuela e in Colombia. In questo paese martoriato, ha potuto verificare con i propri occhi la reale situazione della popolazione nelle comunità rurali, in quello che resta la fonte del conflitto più lungo dell’America Latina. Egli è anche stato testimone sul luogo di uno degli eventi più importanti di questo inizio del ventunesimo secolo, il tentativo di colpo di stato trasmesso in televisione del presidente Hugo Chavez. Su questi temi e paesi, Lemoine è l’autore di notevoli opere che rimangono un riferimento nella materia, come il suo ultimo libro “I bambini nascosti del generale Pinochet”. In questa intervista che ha gentilmente voluto accordare al Journal de Notre Amérique, egli decifra i risvolti della recente svolta a destra nella regione. Egli mette in guardia sulle minacce che gravano ancora e sempre contro i governi progressisti.
Nel 2015 ha pubblicato un opera dal titolo evocativo, “I bambini nascosti del generale Pinochet” (Edizioni Don Quichotte). L’attuale destra latinoamericana, che stia al governo o all’opposizione, è riconducibile alle dittature degli anni 1970?
Ciò che hanno ereditato le destre latinoamericane dalle dittature è soprattutto il rifiuto di vedere la sinistra al potere e di lasciarla governare. Ma gli attuali colpi di stato non hanno nulla a che vedere con la violenza dei colpi di stato degli anni 1960 e 1970: il colpo di stato contro Salvador Allende in Cile nel 1973, ha fatto 3.000 morti; il golpe in Argentina, 30.000 morti e desaparecidos; senza parlare del Paraguay del generale Banzer, dell’Uruguay, della Bolivia, ecc.
Come definire allora gli eventi che si svolgono sotto i nostri occhi in America Latina? Cosa caratterizza l’attuale svolta a destra nel continente?
Gli attuali colpi di stato possono essere chiamati in differenti modi: “golpe blanco”, “istituzionale”, “light” o “giuridico-parlamentare”, come quello che è avvenuto in Brasile….In effetti, dopo la fine degli anni 1990 e l’arrivo al potere dei governi progressisti (Chavez il primo nel 1998, poi Lula, i Kirchner in Argentina, Rafael Correa, Evo Morales…) quasi tutti questi capi di stato progressisti sono stati, prima o poi, posti di fronte a tentativi di destabilizzazione o colpi di stato che a volte sono falliti, altre volte sono riusciti.
Secondo Lei, questi tentativi, fanno parte di una medesima sequenza?
Sì, è la tesi principale del mio libro. Il più conosciuto, quello dell’11 aprile 2002 contro Hugo Chavez, è fallito. Ma esso è stato seguito da una destabilizzazione economica nel dicembre 2002-gennaio 2003, conosciuta sotto il nome di “paro petrolero”. In realtà non si trattava né di uno sciopero petrolifero, né di uno sciopero generale ma di una serrata. Non erano i lavoratori che avevano cessato le loro attività, ma gli imprenditori e i padroni. Non è affatto la stessa cosa. Il colpo di stato riuscito in Haiti contro Jean-Bertrand Aristide nel 2004, ha avuto una particolarità: mentre tradizionalmente si scorge la mano degli Stati Uniti, in questo la Francia è stata egualmente molto attiva e implicata.
Se Chavez fosse stato rovesciato, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (ALBA) non avrebbe visto il giorno…
Nel 2002, l’ALBA non esisteva ancora; essa è nata su iniziativa di Chavez e Fidel Castro nel dicembre 2004. Ma, quando il 30 giugno 2009, Manuel Zelaya, un presidente più di centro-sinistra che rivoluzionario, è stato rovesciato in Honduras, egli aveva avuto effettivamente il torto di entrare a far parte dell’ALBA. Intanto si era assistito nel 2008 ad un tentativo di destabilizzazione di Evo Morales in Bolivia, attraverso le ricche province di Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija, chiamate “la media Luna”. Segue il 30 settembre 2010 un tentativo di colpo di stato condotto da un settore della polizia contro Rafael Correa in Ecuador, che è fallito per poco.
Il colpo contro Zelaya riuscì, mentre simili tentativi fallirono dunque in Ecuador e in Bolivia. Questi due paesi sono stati tra i primi ad aver raggiunto l’ALBA e rafforzato la dinamica d’integrazione latinoamericana. Ma l’impero non si è fermato di fronte a queste sconfitte…
Non del tutto. Nel 2012, il vecchio “vescovo dei poveri” divenuto presidente del Paraguay, Fernando Lugo, è rovesciato in Paraguay, prima che non si manifestasse quell’anno lo stesso fenomeno nell’ultimo paese al quale si potesse pensare: il Brasile.
Né Lula, né Dilma Roussef hanno condotto politiche rivoluzionarie, ma, la crisi economica mondiale ha afflitto il paese, così non c’era più motivo per l’oligarchia di permettere il proseguimento di una politica semplicemente redistributrice verso i più sfavoriti. In realtà, per la destra latinoamericana, appoggiata dalla destra internazionale, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, la democrazia è tollerabile solo se vince la destra. Se la sinistra giunge al potere, si può mettere la famosa democrazia tra parentesi.
Tuttavia, i media francesi, soprattutto Le Monde, non analizzano questi eventi nello stesso modo. Come lo spiegate?
I metodi brutali impiegati negli anni 1970 non sarebbero senza dubbio accettati dalle opinioni pubblica della famosa “comunità internazionale”. Le forme più “raffinate” utilizzate consentono ai media di far passare tutte queste destabilizzazioni come fossero una difesa della democrazia, nel quadro delle costituzioni. Il caso più clamoroso è quello del Brasile. Nessuno dei nostri media ha osato pronunciare la parola “colpo di stato”. Nel migliore dei casi si è detto “Dilma Roussef ritiene di essere vittima di un colpo di stato”, senza prendere posizione. Questi stessi media dominanti nascondono accuratamente il tentativo di destabilizzazione di cui è vittima il presidente venezuelano Nicolas Maduro da quando è stato eletto, cioè dal 2013.
Voi avete descritto una strategia multiforme di riconquista del potere da parte della destra latinoamericana. Cosa rivela la persecuzione mediatica e giudiziaria contro Lula, Dilma o Cristina Kirchner che abbiamo potuto verificare in questi ultimi mesi?
Nella vostra domanda si trova già parte della risposta. In questi ultimi tempi, la destra ha conosciuto molti successi, in particolare in Argentina ed in Brasile. Si riscontra che, malgrado le recenti sconfitte, antidemocratica in Argentina, anticostituzionale in Brasile, Cristina Kirchner e Lula restano dirigenti estremamente popolari nei loro rispettivi paesi. Si tratta dunque di spezzare la loro immagine attraverso attacchi giuridico-mediatici in modo da escluderli dalla vita politica dei prossimi anni. Questo non significa che, al medesimo titolo dei loro omologhi progressisti della regione, essi non abbiano commesso errori.
Nella crisi brasiliana non si può incriminare solo la destra, il Partito dei Lavoratori (PT) ha ugualmente delle responsabilità. La politica di Dilma è stata criticata anche dalla sinistra, dall’inizio del suo secondo mandato. Ma, nella prospettiva delle elezioni presidenziali del 2018, Lula rimane un pericolo per la destra brasiliana. Stessa cosa per l’influenza di Cristina in Argentina. Si tratta dunque di farne dei delinquenti, dei corrotti, anche se, fino a prova contraria, essi non hanno beneficiato personalmente di pratiche reali di corruzione, che coinvolgono l’insieme dei partiti. In un certo modo, questa campagna ha raggiunto il suo obiettivo, in ogni caso da noi.
Ormai, l’apparato mediatico non è più un contropotere ma un alleato dei poteri neoliberali. Questi attacchi permanenti permettono nello stesso modo di rimettere in discussione le politiche condotte dall’inizio degli anni 2000. Ora, occorre ugualmente ricordarlo, questi governi progressisti hanno permesso all’America Latina di far uscire 56 milioni di persone dalla povertà. E’ evidente che negli ultimi 15 anni, Chavez, Kirchner, Lula, Correa, Morales, ecc., hanno messo termine alle politiche neoliberali. Ed è proprio questo che è loro rimproverato.
Tenendo conto delle relazioni tra gli Stati Uniti e il loro “cortile” nella storia contemporanea, cosa vi aspettate dalla politica estera di Donald Trump?
Si esce da un’epoca conosciuta, quella di Barack Obama e Hillary Clinton per entrare in una zona sconosciuta, quella di Donald Trump. Le reazioni alla sua elezione sono state estremamente tiepide. L’insieme dei capi di stato aveva puntato sulla vittoria di Clinton, come d’altra parte i media, i sondaggi, ecc. Essi condividono la sua ideologia neoliberale, come l’argentino Mauricio Macri, che aveva fatto sapere che lo appoggiava. Ma oggi sono tutti frastornati.
Questa campagna elettorale, degna di una discarica, ha in realtà opposto due candidati che rappresentano la peste e il colera. Trump è odioso, osceno, misogino, razzista, ecc. Ma Clinton è una guerrafondaia e ha avuto, in quanto Segretario di Stato, un ruolo estremamente nefasto, sia nel colpo di stato contro Zelaya in Honduras, la distruzione della Libia, o l’aggressione permanente contro il Venezuela. Per certi versi, Trump, sembra anche più in sintonia con alcune delle preoccupazioni delle sinistre latinoamericane: ad esempio egli è contro il Trattato di libero commercio. E in questo, secondo me, si comprende l’imbarazzo del presidente de facto Michel Temer o di Mauricio Macri in Argentina che, al contrario, contavano molto sul rilancio attraverso le politiche economiche dell’Alleanza del Pacifico.
In quali altri ambiti si potrebbe avere un certo cambiamento?
Si trova tutto e il contrario di tutto nelle dichiarazioni di Trump, dichiarazioni molto razziste, spiazzanti, condannabili, in particolare contro l’immigrazione messicana. Però, tra parentesi, se occorre sicuramente difendere i diritti delle comunità latine presenti sul territorio americano, la sinistra guadagnerebbe sicuramente a cambiare un po’ la sua proposta: il principale diritto da difendere è quello dei latinoamericani di vivere a casa loro in condizioni dignitose, e non di essere costretti, cosa sempre traumatica, ad emigrare negli Stati Uniti. “Vivere e lavorare al paese”, la formula era ancora usata nelle province francesi non molto tempo fa.
Ciò detto, questa elezione inquieta legittimamente il Messico. Da vent’anni, tra il 1994, anno della firma dell’accordo di libero scambio nord americano (Alena), e il 2016, il paese si è totalmente rivolto verso gli Stati Uniti, da cui è diventato totalmente dipendente. Se Trump rimette in forse questo trattato, è tutta una strategia che crolla. Ora, se Alena non è affatto convenuto all’immensa maggioranza dei messicani, un cambiamento di rotta non si può effettuare dall’oggi al domani.Non è una combinazione se una riunione urgente è stata organizzata dal presidente messicano Pena Nieto per studiare quale strategia adottare. Egli ha anche lanciato un appello a Donald Trump per un nuovo incontro.
La Colombia non è più tranquilla, anche se il presidente Santos è stato il primo ad inviare le sue felicitazioni. Obama appoggiava i negoziati del governo con le FARC. Un accordo di pace è stato alla fine firmato il 24 novembre, ma la sua attuazione non sarà priva di difficoltà e nulla si sa se Trump interverrà in modo positivo o se appoggerà l’estrema destra rappresentata dall’ex presidente Alvaro Uribe nella sua politica di ostruzione.
E per quanto riguarda il processo di normalizzazione delle relazioni tra gli Stati Uniti e Cuba?
Le misure annunciate da Obama non hanno risolto i problemi più importanti: l’embargo è sempre in vigore, l’occupazione da parte del Pentagono della base di Guantanamo non è stata rimessa in discussione. Tuttavia, ci sono stati dei progressi. Durante la sua campagna, Trump è passato da Miami e vi ha fatto dichiarazioni molto ostili verso il proseguimento di questa politica di apertura, dal momento che ha detto che rimetterà in discussione le misure prese da Obama. Al momento della morte di Fidel Castro, si è mostrato molto aggressivo trattando Fidel da dittatore brutale che ha oppresso il suo popolo e ha aggiunto che la sua amministrazione farà tutto il possibile affinché i cubani possano ritrovare la prosperità e la libertà.
Il futuro dirà se egli metterà dell’acqua nel suo rum – poiché potenti settori americani sognano di poter commerciare con l’isola – o se persisterà con la sua ostilità. In ogni caso, la recente scomparsa di Fidel non avrà influenza sull’insieme delle evoluzioni interne. Tutti i cambiamenti, comprese le riforme intraprese da Raul, sono avvenuti con lui in vita.
L’eventuale politica di Trump, non può essere giudicata subito. Capace di rimettere in causa le recenti misure prese con L’Avana, egli ha, dall’altro lato, una posizione più ragionevole di quella di Hillary Clinton quando dice che occorre tendere la mano alla Russia e non pare così entusiasta come lei a lanciarsi in un intervento radicale, in alleanza ad un’opposizione più jihadista che moderata, contro il regime di Bashar El-Assad in Siria.
Per quanto riguarda la sinistra latinoamericana, il solo vantaggio con la Clinton, che non è certo un’amica, è che tutti potevano immaginare quello che avrebbe fatto o che poteva fare. Con Trump, nessuno lo sa.
Dopo anni, la situazione dei migranti honduregni, guatemaltechi o salvadoregni continua ad aggravarsi in Messico, porta d’ingresso del vicino del Nord. Tuttavia, in questi paesi si applicano le medesime ricette a favore delle multinazionali. Il capitalismo continua ad essere una trappola mortale per migliaia di latinoamericani. Come contrastare la sua principale forza d’attrazione, con il suo slogan il cosiddetto “american way of life”?
Il giorno in cui i latinoamericani potranno vivere degnamente a casa loro, essi non avranno più la tentazione di partire verso il nord. Lasciare il proprio paese è sempre un’avventura dolorosa. E molto pericolosa per il mercato. A tale riguardo, bisogna notare una cosa: da una quindicina d’anni, le grandi migrazioni verso gli Stati Uniti avvenute nei decenni dal 1980 al 2000 e provenienti dall’Ecuador o dalla Bolivia sono scomparse. Bisogna stupirsi? La situazione sociale è considerevolmente migliorata in questi paesi.
A parte il Nicaragua con i sandinisti e il Salvador con l’FLMN, l’America Centrale è nelle mani della destra. Si è notato che la recente rielezione di Daniel Ortega in Nicaragua è passata relativamente inosservata perché sopravvenuta nello stesso momento dell’elezione di Trump. Tuttavia, la campagna mediatica è stata alquanto feroce nei confronti di Ortega e di sua moglie, oramai vice-presidente, Rosario Murillo. Di questo fatto, molto pochi hanno notato che il Nicaragua è il paese più tranquillo della regione con il Costa Rica in termini di sicurezza, e di penetrazione del narcotraffico. Honduras, Guatemala e, ad un livello inferiore, il Salvador – chiamati il Triangolo nord – sono praticamente paesi falliti a causa della loro insicurezza.
Come spiegate questo fenomeno dell’insicurezza sempre in crescita in America Centrale?
Nelle tre nazioni citate in precedenza, i tassi di insicurezza sono i più alti dell’America Latina e anche del mondo, in paesi che non sono in guerra. Alla penetrazione del narcotraffico, occorre aggiungere il fenomeno dei “maras” e dei “pandillas” – che tradotto significa “bande di delinquenti”. Da dove provengono queste bande di criminali? Occorre risalire alla guerra civile che ha devastato il Salvador negli anni 1980. All’epoca, decine di migliaia di salvadoregni o di guatemaltechi sono partiti per gli Stati Uniti. Vi hanno vissuto le difficoltà dell’integrazione che riscontra ogni immigrazione e, secondo un processo conosciuto presso altre latitudini, una parte della seconda generazione si è integrata nelle “gangs”, sul modello nordamericano, in particolare a Los Angeles.
Adottando i metodi molto brutali di queste gangs, questi giovani hanno conosciuto la polizia, poi la giustizia, e si sono ritrovati in prigione prima di essere espulsi verso il loro paese d’origine. Dove essi hanno importato i metodi iper – violenti delle “gangs” americane, che si sono diffusi in tutta la regione. Si ha, in un certo modo, un effetto boomerang dell’emigrazione di massa.
Che accadrà domani se Trump metterà in atto la sua minaccia di espellere tre milioni di messicani, che non sono evidentemente tutti delinquenti (ma tra i quali questi avranno la priorità), verso il Messico?
Questo fenomeno delle gangs ci conduce all’assenza di dibattito sui flussi migratori in seno alla sinistra. Non si può considerare che i massicci spostamenti di popolazione siano la soluzione ai grandi problemi che si pongono ovunque nel mondo. La lotta principale verte sull’appoggio ai governi progressisti che mettono in opera politiche di sviluppo.
Osservo d’altronde con molto divertimento, che nella nostra famiglia politica, i medesimi che vedono con ostilità l’emigrazione dei cubani negli Stati Uniti considerano con molta simpatia la migrazione degli altri latinos. Vi è lì una contraddizione, un’assenza di riflessione nel momento in cui i flussi migratori esplodono, sapendo che domani, con il cambiamento climatico, le migrazioni climatiche diverranno l’evento maggiore del nostro tempo.
Dopo la vittoria del “NO” al referendum sul processo di pace, il 24 novembre, un nuovo accordo è stato ratificato. Tuttavia, il contesto è sempre quello di una forte ondata di omicidi e repressioni verso i militanti dei movimenti popolari in campo. Si può accordare al governo Santos una volontà sufficientemente ferma nei confronti dei paramilitari?
E’ la domanda da centomila pesos. A priori si potrebbe dire di sì. L’obiettivo che si è dato Santos è di giungere a degli accordi di pace. La messa in opera di questi passa evidentemente dalla lotta contro il para militarismo. Sfortunatamente, sul campo, al di là dell’eventuale buona volontà di Santos, una parte dell’esercito, storicamente legata al para militarismo , mette molto meno entusiasmo nel contrastare i “Bacrim”, le bande criminali emergenti, nuova denominazione dei gruppi paramilitari, di quanto non faccia nei confronti dell’Esercito di liberazione nazionale (ELN), la seconda guerriglia del paese, che si trova a sua volta ad un passo dall’iniziare dei negoziati.
E’ evidentemente un punto importante, sapendo d’altronde che il para militarismo è intimamente legato al narcotraffico, di gran lunga di più di quanto non lo siano state le FARC. Ora, ci si trova di fronte ad un’autentica contraddizione. Con o senza le FARC, se le popolazioni contadine della Colombia, non vedono concretamente migliorare le loro condizioni di vita, attraverso profonde riforme, non vi è alcuna ragione per cui esse abbandonino la cultura della coca. Dunque si rischia di veder perpetuare il narcotraffico, attraverso i paramilitari riciclati in delinquenti comuni, ma che hanno conservato una visione ideologica e proseguono la loro lotta contro i movimenti sociali e popolari.
La vera questione è di sapere se il presidente Juan Manuel Santos – che non ha più molto tempo come capo di stato -, ed i governanti colombiani futuri avranno la saggezza, la volontà di mettere in atto politiche sociali, ad iniziare da quelle che figurano nell’accordo recentemente siglato.
Abbiamo sfortunatamente motivi di dubitarne. Infatti, la politica di Santos è neoliberale, il suo scopo è di estendere sia lo sfruttamento minerario che di sviluppare l’agro-industria. Ma l’estensione di questi settori di attività, che divorano le terre, entra in totale contrasto con la richiesta delle popolazioni contadine: lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile, familiare, basata sul consumo interno. Le vere questioni sono queste.
Inoltre, il ritorno della pace non comporterà la fine del conflitto. Questo proseguirà in modo diverso che la guerra e le armi, in un quadro che ci auguriamo democratico, di lotte sociali. E nessuno ritiene che l’oligarchia, sia quella moderata di Santos, che quella estremista come Uribe, sia pronta a concedere qualunque cosa.
Da qualche settimana, Santos ha annunciato che intende rafforzare il reparto mobile antisommossa ESMAD, un’unità repressiva molto violenta, e, qualche giorno fa, in questo paese che tenta di ritrovare la pace, egli intende far approvare il servizio militare da dodici a diciotto mesi.
Fonte : Investig’Action, Journal de Notre Amérique