Belgio: prove tecniche di catastrofe nucleare

In 13 anni la calendarizzazione dell’uscita dal nucleare ha subito numerosi slittamenti. A incidenti e scoperte sul pessimo stato dei reattori sono seguite scelte governative molto discusse. Il Belgio ha due centrali. Doel ha 4 reattori; il più vecchio è attivo dal 1974, il più “giovane” dall’85. I 3 reattori di Tihange sono in funzione dal 1975, 1983 e 1985.

Il piano di uscita graduale dal nucleare votato nel 2003 dalla coalizione di governo arc-en-ciel avrebbe dovuto ultimarsi nel 2025. Ma nel 2012 il governo Di Rupo posticipa di 10 anni la chiusura di Tihange 1 per “garantire la sicurezza di approvvigionamento”. Lo scorso dicembre la chiusura dei reattori Doel 1 e 2 viene rimandata al 2025 dall’attuale governo Michel.

Questa qui non è una crepa

Oggi, sulle sorti dei reattori Doel 3 e Tihange 2 è in corso un match fondamentale in cui ci si gioca la sicurezza. Nel 2012 l’Autorità Federale per il Controllo Nucleare (AFCN) annunciava la presenza di migliaia di crepe nei sistemi pressurizzati collegati ai due reattori, disponendone la chiusura temporanea. Saranno riaperti nel maggio 2013, per essere richiusi a marzo 2014 visti i risultati preoccupanti dei test di “irradiazione” che ne condizionavano la riapertura. Lo scorso novembre il nuovo via libera, subito seguito da segnali di malfunzionamento.

In Belgio il nucleare copre tuttora circa il 55% del fabbisogno energetico nazionale. Per il Ministro Marghem (Mouvement Réformateur, MR) la riapertura è necessaria per assicurare la transizione energetica. Da una prospettiva ambientalista questo argomento poggia su false premesse. Ad ostacolare la transizione è il lassismo dei governi succedutisi dal 2003, che non fa che rafforzare la posizione del gigante dell’elettricità Electrabel. Sussidiaria di Gaz de France-Suez (da poco Engie), la compagnia francese detiene il monopolio della produzione di elettricità e gas nel paese, oltre ad essere proprietaria delle centrali.

“L’inazione federale ha permesso a GDF-Suez di avere il controllo sulla nostra politica energetica”, denuncia la coalizione ecologista Ecolo-Groen, e accusa: il moltiplicarsi degli annunci sul rischio blackout nel 2015 erano una mossa deliberata della compagnia per rafforzarsi agli occhi del pubblico e nelle negoziazioni con il  governo. Greenpeace non ha usato mezzi termini, definendo il governo “schiavo di Electrabel”.

Un approccio che ha poco di “scientifico”

I risultati dell’ultimo rapporto indipendente commissionato dai Verdi europei e pubblicato lo scorso gennaio inficiano quelli ufficiali con cui si era autorizzato il riavvio della produzione. L’esperta ritiene che l’AFCN accetti passivamente le tesi di Electrabel. Secondo la compagnia le crepe sono dovute ad una desquamazione dell’idrogeno avvenuta nel processo di fabbricazione degli impianti.

Semplicemente non c’è alcuna prova”, si legge nel rapporto, “l’unico modo per determinarlo implica la distruzione dei recipienti a pressione”. Inoltre, l’AFCN permette che i test di irradiazione siano eseguiti su campioni non rappresentativi, per via della diversa storia di fabbricazione e trattamento termico.

I rilevamenti del 2014 hanno individuato fratture più grandi rispetto al 2012. Il rapporto spiega anche che Electrabel ha alterato le formule dei test, mentre l’AFCN ha escluso volutamente una serie di possibili cause per l’allargarsi delle crepe “in contrasto con lo stato della scienza e della tecnologia”. In sintesi, “gli esperti dell’Autorità Belga tendono a ridurre al minimo gli standard di sicurezza” mentre siamo “di fronte a dei rischi significativi”. C’è poco da star tranquilli.

Lobby, soldi, lobby, quanti soldi

Oggi sembra mancare una volontà politica diffusa di assicurare la necessaria transizione energetica. Perché investire ancora nel nucleare e non nelle rinnovabili? Gli interessi in gioco sono altissimi. Ogni reattore apporta a Electrabel 1 milione €  di utili al giorno. E i costi di riattivazione graveranno tutti sui consumatori. Solo per il reattore 1 di Tihange, 600 milioni di euro esclusi gli interventi per la “messa in sicurezza”.

La politica sguazza negli interessi che ruotano attorno al nucleare. Molti membri del gabinetto Marghem e di AFCN in passato lavoravano per Electrabel o altre filiali GDF. E da più parti ci si interroga sulla reale indipendenza dell’organismo di controllo nucleare. Di recente il movimento politico VEGA ha denunciato una collusione – “consciente ou non” – tra la compagnia, l’AFCN e l’ufficio del Ministro.

Due nomi su tutti: Thomas Pardoen, l’unico belga designato da AFCN per valutare le crepe e i test per il riavvio è il fratello di Martial, responsabile del dossier energia nel gabinetto Marghem, nonché ex-direttore della centrale di Doel. Pierre-Étienne Labeu, l’esperto che presiede il gruppo “indipendente” sulle sorti di Doel 3 è legato al Belgian Nuclear higher Education Network (BNEN), un centro di ricerca sponsorizzato da GDF-Suez/Engie e AFCN.

La recente fuga di notizie sull’ultimo audit di gestione interna dell’Agenzia non fa che confermare quello che gli ambientalisti denunciano da anni: il rapporto parla di una AFCN debole per via delle pressioni crescenti a cui è sottoposta, e sensibile all’influenza di particolari interessi economici e politici.

C’è da chiedersi se il Belgio voglia ancora abbandonare il nucleare. Mentre il governo propone di distribuire compresse di iodio su tutto il territorio in caso di incidente, Germania, Lussemburgo e Olanda hanno già sollevato preoccupazioni e le città di Maastricht e Aquisgrana hanno avviato un’azione legale per accelerare la chiusura dei reattori. I movimenti anti-nuclearisti sono in costante mobilitazione, e la petizione online ha già raccolto oltre 1 milione di firme. Come e quando finirà il valzer belga del nucleare?

Blog di Federica Morelli : The European Ass / L’Asino Europeo

Fonte : Investig’Action